Se si fissasse un salario minimo di 9 euro lordi l’ora, come diverse proposte in Parlamento, ci sarebbe (dati Inps) il 18,4% di lavoratori sotto questa soglia, considerando salario base più la tredicesima. Quota che scende al 13,4% se la soglia fosse di 8,5 euro e al 9,6% se a 8 euro. Pur sempre tanti, ma generati soprattutto dai rapporti di lavoro precari, più che dai minimi dei contratti. I dati Istat, nonostante siano riferiti al 2019, mostrano che già allora il valore medio delle retribuzioni contrattuali orarie era di 14 euro e quello mediano di 12,5 euro.

Va precisato che la Direttiva Ue non impone il salario minimo per legge. Dove la contrattazione è forte, come da noi, si potrà andare avanti definendo i minimi salariali nei contratti nazionali di categoria. Ma in Italia ce ne troppi: 935. Di questi solo la metà utilizzati e poco meno di 200 firmati da Cgil, Cisl e Uil. Nella giungla si nascondono anche intese firmate al ribasso da associazioni datoriali e sindacati dalla dubbia rappresentatività. La direttiva in realtà non impone interventi per disboscare. Ma fissa dei parametri di riferimento: nei Paesi dove si introduce il salario minimo per legge, questo non potrà essere più basso del 50% della retribuzione media o della retribuzione mediana. Rispettivamente 10,59 euro o 7,65 euro, secondo i calcoli dell’ex ministra Nunzia Catalfo.

Quale è la proposta del ministero del Lavoro?

Secondo la proposta del ministro Andrea Orlando, il salario minimo potrebbe coincidere col «Trattamento economico complessivo» definito dai contratti. Da notare: il Tec tiene dentro un po’ tutto: il minimo più compensi legati al recupero di produttività e anche il welfare. Il lavoratore con una retribuzione inferiore, per vedersi riconosciuta la differenza, dovrebbe rivolgersi al giudice. Che dovrebbe prendere come riferimento il Tec. Non un Tec qualunque: quello fissato dai contratti firmati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. E toccherebbe al giudice definire quali sono.

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